Pasolini in modo provocatorio a proposito dei giovani sentenziò: -“I giovani d’oggi sono una massa di criminaloidi a cui non si può parlare in nome di nulla”. Mai come in questo caso una sentenza, se pur autorevole, mi è parsa tanto lontana dalla situazione che vivo quotidianamente nella mia classe, con la quale ci prendiamo vicendevolmente in considerazione, parlando e comunicando in modo efficace e reciprocamente gratificante.
La scuola in generale si propone ufficialmente di trasmettere la cultura e di elaborarla con i loro insegnanti, ma non parla di “cultura dei giovani”. I giovani sono portatori di frammenti di una cultura in via di costruzione, di valori, di pregiudizi, di bisogni, di domande, di strumenti di difesa e di attacco. Per insegnare bisogna comunicare e cioè capire il loro mondo e introdurli nel mondo del sapere organizzato, facendone cogliere il valore, la problematicità, l’utilità per la comprensione di sé e per il miglioramento della vita.
Occorre tatto, sensibilità diplomatica, disponibilità a “scoprirsi” e a cercare un terreno comune di dialogo, perché emergano le domande “autentiche” insieme a quelle “giuste”: quelle della cultura adolescenziale insieme a quelle della cultura adulta. E occorre saper anche cercare e lavorare insieme; si impara anche dagli studenti nelle ore di lezione e questo ci fa bene perché va ad intenerire quella parte di adulto sempre vigile e statico che è dentro di noi.
Bisognerebbe dunque, favorire nei giovani l’acquisizione di capacità autonome, assecondando e favorendo il loro impegno culturale e civile, nel quadro delle finalità formative della scuola. Non basta far lezione e interrogare, utilizzando i soli codici formali della scuola tradizionale; bisognerebbe anche far nascere il desiderio di fare qualcosa insieme, in classe, attraverso il lavoro di gruppo, e nella scuola, con gruppi vari di partecipazione e gruppi di riferimento, in ambito culturale, ricreativo, sportivo.
I giovani sentono di essere una non-generazione, se con questo termine si vuol designare un vissuto comune ad altri che sentono come “compagni”, per analogia con quello che ha accomunato i loro genitori o nonni quando erano giovani. Di qui la perfetta percezione di non avere punti di riferimento solidi.
I giovani sono dunque, un pianeta di generazioni confusive tra loro, con confini sempre più labili e aperti verso le generazioni più adulte. Le difficoltà maggiori nella costruzione del senso di generazionalità da parte dei giovani sembrano proprio venire dal fatto di vivere in una “società eticamente neutra” che non viene certo percepita come “oppressiva” nei loro confronti, ma anzi acuisce il senso di “solitudine morale” che è proprio di ogni cultura di tipo relativistico -“Agisci secondo le regole che tu stesso ti darai” – E’ per questo che dal 5° Rapporto IARD, sulla condizione giovanile in Italia, emerge che “i valori sociali di democrazia e libertà sono percepiti più come diritti personali da far valere nel bozzolo delle relazioni primarie che come valori per i quali battersi a beneficio di tutti”. Valori e diritti, dunque, più che doveri.
Alla luce di tutto ciò il rapporto giovani-scuola assume una duplice valenza: da un lato sarà rilevante chiedersi come la scuola interagisca con le generazioni giovanili con cui e strutturalmente in rapporto; dall’altro lato in quale misura il tipo di cultura e di valori che essa veicola possa contribuire al senso di “generazionalità” dei giovani che ha il compito di educare. A questo punto sorgono due tipi di interrogativi: Come i giovani considerano la scuola? Come la scuola considera i giovani per rivolgersi a loro? Rispetto alle altre istituzioni e categorie sottoposte a giudizio il 60% degli intervistati IARD ha dichiarato di avere “molta” o “abbastanza fiducia” negli insegnanti.
I maggiori difetti attribuiti loro riguardano “la tendenza a non considerare le esigenze e il punto di vista degli studenti”. Dal loro canto però, si eleva la voce querula degli insegnanti che soffrono per le difficoltà di comunicare con gli studenti interpretando la società contemporanea e quella giovanile in particolare, come portatrice più di disvalori che di valori. Anche il clima relazionale della classe è percepito in netto peggioramento: bullismo, droga, violenza, volgarità e molestie sessuali vengono percepiti in aumento. In questo contesto fatica ad emergere quel fattore vocazionale che indubbiamente esiste ancora nei docenti e che in altri tempi era assai più visibile e premiato dalla stima sociale, da allievi più docili, da una diffusa autorità di tipo genitoriale, da un futuro, se non più roseo, certo meno oscuro di quello che appare all’inizio del nuovo millennio.
La visione semplificata della società fornita dalle ideologie del secolo scorso appare come moneta inflazionata, non più spendibile. Famiglia, amore, amicizia, sono valori apprezzati dai giovani. Ma sotto questa sottile pellicola crescono denaro, bellezza, successo piacere. Le differenze fra l’età, fra sessi e fra ceti si attenuano.
I latini conoscevano l’infantia, l’adulescentia, la juventus, la virilitas, la senectus, e la decrepitudo. Anni fa si parlava di bambini, fanciulli, di preadolescenti, di adolescenti, di giovani di adulti, di anziani e di vecchi. Oggi si parla quasi solo di bambini, giovani e adulti, raramente di anziani. La difficoltà di identificare con precisione la scansione di fasi o stadi dell’età evolutiva rende anche difficile pensare a “scuole da stadio”: ragioni semplificative di tipo organizzativo tendono a ridurre i gradi di scuola, ad accorparli, come si è fatto con la legge 30/2000 (modello 7+5). La nuova norma in discussione al Parlamento tende invece a recuperare la specificità di una scuola della preadolescenza, pur nell’impegno a garantire la continuità tra primaria e secondaria.
L’incertezza linguistica e la riduzione dei termini con cui si designano le diverse età della vita rischia d’impoverire la comprensione delle diversità e l’elaborazione di quelle mete educative che corrispondono sul piano personale a chiari compiti di sviluppo sul piano sociale e significativi riti di passaggio fra una fase della vita e un’altra.
La pluralità delle concezioni della vita, dell’educazione, della scuola costituisce certo una difficoltà, ma non determina di per sé il caos, la paralisi o l’impossibilità di trovare linee convergenti sul piano normativo, organizzativo, pedagogico-didattico, operativo. E’ infatti rintracciabile, in prospettiva storica e antropologica, un minimo comune denominatore pedagogico, che è stato definito teoria standard. A questa va collegata la preziosa eredità del secolo scorso, costituita dalla dottrina internazionale dei diritti umani e dalla prima parte della Costituzione italiana.
Si può parlare, dunque di attività educativa, quando ci si pone responsabilmente il problema dei valori, dei significati, dei metodi, dei risultati attesi e dalla congruità di quello che si propone con la possibilità dell’educando di comprendere e di reagire, di apprendere e di elaborare sensibilità, concetti e competenze, e cioè di atteggiamenti e comportamenti di cui diventi progressivamente e responsabilmente titolare. Essi prima che scolari e studenti sono persone che vivono pro tempore in una certa fase dell’età evolutiva.
Non si tratta dunque, di ignorare, di respingere o di accreditare acriticamente quello che provvisoriamente chiamiamo le culture giovanili, né di imporre loro la cultura dei libri o la propria cultura, ma di costruire dei ponti, di chiedere e di meritare fiducia, di sintonizzarsi con la comune umanità che, sia pure attraverso un groviglio di fili, può collegare insegnanti, scolari, studenti.
L’educatore è tenuto a compiere una meditazione tra i problemi e i valori che vive e riconosce nella sua storia personale e che appartengono alla società di cui è parte, tra le caratteristiche, i vincoli e le risorse dell’istituzione e del contesto in cui avviene la comunicazione, tra i problemi, valori e le potenzialità che riconosce nelle persone di cui si occupa.